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Storia cultura e territorio
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Il Versante Gastronomico

I sentieri del gusto

10 Giugno 2021
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La grande storia di Sabbioneta non si ferma all’architettura sublime della “Città ideale”, alle note storiche prorompenti da un contesto che vede Vespasiano Gonzaga Colonna protagonista di una stagione di gloria e di splendori; non si perde nelle vie e nelle piazze della “Novella Roma”, né nella sensazionale proposta artistica di Palazzo Giardino, della “Galleria”, del Teatro all’Antica o del Palazzo Ducale. Le sensazioni, lo stupore, i sentimenti si dilatano a qualcosa di meno etereo e tuttavia pulsante di fermenti e ridondante di trasalimenti.

I sentieri del “gusto” impongono una sosta; il desiderio di sapori, profumi, colori, chiama ad una estraniazione/immersione in un universo “altro”, disseminato di note dolcissime, ancorate a un dettato di tradizione che abbiamo alle spalle soltanto in termini temporali, ma che ancora ci avvinghia a una condizione di piacere dalla quale non è dato prescindere.

La buona cucina sabbionetana recita una commedia che ogni giorno si rappresenta tra i vetusti palazzi, nelle assolate o nebbiose campagne, nelle silenziose rimemorazioni di una vicenda che parla di storia ma anche di quotidiano.

Nulla di eclatante, di divino. Nulla che possa indurre il visitatore a sospettare che solo di parole si tratti. La cucina sabbionetana è fatta di semplicità, tant’è che rigettiamo anche il termine “tipica”, proprio perché essa è costituita prevalentemente dai gesti, dai rituali, dai ricordi di una stagione lontana ma che ancora vive, e da quella incancellabile vena nostalgica che induce a cercare di ripercorrere un cammino perduto nel tempo.

Parrebbe impossibile, ma l’enogastronomia di questo territorio si differenzia da quella prettamente “mantovana”. Qui vi sono delle peculiarità che, addirittura, si potrebbero definire “linguistiche”, stante il livello di comunicazione al quale guardano e si indirizzano.

Gli antipasti sono un’invenzione del nostro tempo. Al di là dell’”olimpico” bevr in vein nulla si rilevava in passato nel consumo di un’anticipazione del pranzo o della cena. Tuttavia, se si pone orecchio al melodioso appellativo Bevr in vein, non si può mancare di andare con la mente al soave profumo scaturente da una candida scodella di marubini, nella quale il formaggio grana grattugiato si mescola e fonde nello scuro lambrusco locale e nel brodo, espressione colta e vivificante di un assioma del gusto che preparava - e prepara - lo stomaco a ben più consistenti competizioni.

Ma le stagioni cambiano, così come muta il gusto che scandisce il tempo che ci è stato dato da vivere; e a testimonianza di una condizione di benessere che si desidera affermare attraverso il cibo, ecco che nasce l’ingannevole passaggio dell’antipasto, nel quale si desidera mangiare prima di mangiare.

Ma, se ciò non ha radici sotto il profilo della tradizione né significato demologico, rivela tuttavia un afflato amoroso verso una componente non trascurabile delle nostre origini e storia familiare, tenuto conto di quale ruolo abbiano avuto i salumi negli ultimi due secoli. Per far ciò basterà abbandonarsi al sapido ricordo delle ”maialate” d’un tempo lontano (i giorni dell’uccisione del maiale e dei rituali ad esso collegati), nelle  quali il porcho assumeva il ruolo di incontrastato protagonista.

Ecco allora che la tavola si riempie d’un tratto di eccellenze che si chiamano salame casalino, ciccioli o grepole, lardo battuto con aglio e prezzemolo, coppa, pancetta e culatello, che accanto a fumanti fette di polenta avvicinano il forse ignaro pellegrino alla mensa degli dei.

I primi piatti che esaltano la cucina sabbionetana sono semplici e complessi al tempo stesso. La semplicità viene dalla messa in opera di elementi di quotidiano, mentre la complessità alberga nella concretizzazione di un piacere che esprime compiutamente l’esplosione del gusto.

I tortelli di zucca un tempo si gustavano un paio di volte l’anno, divenendo, ad esempio, il piatto cardine della Vigilia di Natale; ma oggi si consumano ad ogni stormir di fronda, a dimostrazione di una formidabile valenza di gusto e di comunicazione. Sfoglio, amaretti, mostarda, formaggio grana, noce moscata….  e via, via, pronti ad affidarsi completamente alla dimensione del piacere della bocca.

E i cappelletti o agnolini di carne, qui chiamati marubini?  Natanti in un fantastico brodo di cappone o di brodo tagliato con gallina e manzo e cosparsi abbondantemente con quel formaggio grana che da secoli allieta la tavola mantovana? Così buoni da far dimenticare pensieri ed affanni.

E le tagliatelle perdute nell’abbondante sugo d’anatra, rigorosamente di pasta fresca e fatte in casa, buone da leccarsi i baffi? E il riso con la zucca? E gli gnocchi di patate? Gli interrogativi, alla fine, sono ingannevoli, ché tanto ognuno sa di quale sospiroso abbandono si stia parlando.

La terra sabbionetana è percorsa da acque chiare e fresche, così che carpe, tinche e pesci gatto si rivelano un piatto della tradizione sul quale i visitatori si attardano, increduli di come tanta semplicità possa assumere i toni del più palpabile godimento.

Ma nemmeno mancano lo stracotto d’asino o il brasato di manzo con la polenta, le lumache, le rane, servite con fragranti e profumate frittate. E poi…. l’eccellenza del cotechino, testimone antico di una tavola povera ma ricca di fantasia e di gusto.

E che dire dei dolci, sui quali sovrana regna la mitica sbrisolona, fatta con la farina gialla e bianca, mandorle, burro e zucchero, impastata con il sapere e l’amore d’un tempo fattosi ormai lontano, ché questa torta affonda le origini nella notte dei tempi?

Ma qui, a Sabbioneta, spopolano i Filòs, biscotti caserecci che ripropongono i sapori di vecchie silenziose, odorose cucine, fatti con noci, nocciole, pinoli, cioccolato, pronti ad immergere il consumatore nella condizione di aggregazione che dà loro il nome, che parla dell’antico incontrarsi delle famiglie nelle stalle alla fine della giornata, in una inesausta ritualità che consentiva sviluppi demologici e relazionali di straordinaria intensità.

E, ancora, non possiamo dimenticare il Dolce delle rose, l’Anello di monaco, la torta Elvezia, lo zabaglione, e il frutto più piacevole della stagione autunnale, ovvero il Sugolo (such).

Da ultimo il vino, quel nostro lambruscone scuro che già il sommo Virgilio ricordava, bandiera enologica del territorio. Quel bel vino che impasta la bocca, che sporca irrimediabilmente tovaglie e tovaglioli, che accompagna i piatti di questa nostra tradizione fatta di semplicità ma arditamente sviluppata in un contesto così attento e rigoroso da rasentare l’impossibile.

Sì, perché la cucina sabbionetana è tutto fuorché banalità.